Chi ha iniziato ad esercitare la professione forense circa 15 anni fa (come chi scrive quest’articolo) certamente si sarà accorto di quante cose, soprattutto dal punto di vista pratico, siano cambiate, ma forse non si sarà troppo soffermato a riflettere sull’incredibile evoluzione che, in realtà, ha caratterizzato l’intero sistema soprattutto nei tempi più recenti.
Uno dei ricordi che mi vengono subito in mente in proposito è certamente la modalità attraverso cui si doveva verificare l’avvenuta fissazione dell’udienza di una nuova causa.
Dopo aver introdotto un giudizio, infatti, per conoscere in quale data ci si doveva presentare in Tribunale, era necessario consultare un registro manuale (c.d. “pandetta”) nel quale reperire, in base all’anno e all’ordine alfabetico, il cognome delle parti in causa. Una volta trovati i nomi agli stessi era abbinato un numero da annotare per eseguire le successive ricerche (c.d. “numero di ruolo”).
A questo punto si doveva prendere un’altra pandetta (di dimensione decisamente più grandi e molto più pesante) sul cui dorso era segnato un intervallo di numeri in cui doveva essere compreso anche quello già individuato dalla ricerca precedente e sfogliarla fino a trovare la riga corrispondente in cui il detto numero era riportato.
Questo secondo registro conteneva, infatti, tutti i numeri di ruolo in ordine cronologico e, per ciascuno di essi, una riga in cui erano segnati i nomi delle parti, nonché la sezione ed il giudice a cui il fascicolo era stato assegnato.
Infine, per consultare materialmente il fascicolo era necessario recarsi nella cancelleria della sezione e del giudice corrispondente e cercarlo nei vari faldoni suddivisi per data. Finalmente la ricerca era terminata…..
Ciò premesso mi resi conto che per iniziare a svolgere la professione di avvocato bisognava avere non solo molta pazienza, ma anche una discreta forza fisica necessaria per sollevare e rimettere al loro posto i “libroni” su cui tali dati erano segnati.
Considerato inoltre che potevano esserci altre variabili tipo uffici temporaneamente chiusi o registri magari immediatamente non disponibili, non vi era neppure certezza che in una sola volta tali operazioni di consultazione potevano essere esaurite.
Oggi la verifica dell’assegnazione della causa si può fare comodamente dal proprio studio in qualsiasi ora del giorno e senza doversi necessariamente recare in Tribunale, attraverso un comunissimo computer dalla cui consultazione è possibile conoscere tanto il giudice, quanto la data fissata per l’udienza.
Naturalmente non è questa l’unica operazione che si può effettuare telematicamente in quanto, almeno nel processo civile, si sta andando finalmente verso la piena e completa attuazione del c.d. “processo telematico”, sistema attraverso il quale è possibile eseguire una serie di adempimenti che sino a poco tempo fa rendevano, invece, necessario l’accesso presso gli uffici giudiziari.
Depositare atti, iscrivere a ruolo le cause, consultare le sentenze, infatti sono operazioni che già oggi, con estrema semplicità si possono effettuare in modalità telematica.
E’ con grande stupore, però (e questo è uno dei principali motivi che mi hanno spinto a scrivere questo contributo) che, soprattutto negli ultimi giorni, sto parlando con alcuni colleghi avvocati che sembrano non riuscire assolutamente ad entrare nel “mondo digitale” della giustizia e siano ancora costretti ad effettuare continue ed affannose ricerche “cartacee” negli uffici giudiziari.
Eppure tutto questo non è affatto difficile, in realtà basta solo volerlo e metterci un minimo di applicazione provando a pensare alla professione di avvocati in maniera decisamente più moderna e più rapida rispetto anche al più recente passato.
Non è infatti impossibile pensare a coniugare giustizia e modernità, ma ciò non deve avvenire soltanto sul piano pratico attraverso l’ammodernamento dei sistemi di comunicazione e di consultazione in ambito giudiziario, quanto piuttosto e soprattutto anche sul piano culturale della mentalità e dell’approccio alla professione.
Essere moderni, infatti, non vuol dire soltanto utilizzare gli strumenti della tecnologia, ma anche imparare dalla tecnologia ad essere efficaci, rapidi ed incisivi, senza che ciò vada a scapito della qualità del servizio offerto e della tutela dei diritti dei cittadini.
L’importante non è parlare o scrivere molto, quanto piuttosto parlare e scrivere bene, tanto che una buona probabilità di successo in un giudizio per un avvocato, a mio avviso, non dipende dal tempo che utilizzerà per discutere una causa, ma dalla qualità delle parole che avrà pronunciato o che avrà scritto sui propri atti.
Qualche giorno fa, durante un’udienza penale dinanzi al Giudice di Pace ho assistito ad una discussione di un giudizio di ingiuria e minacce in ambito condominiale. La parte civile ha parlato per circa un quarto d’ora e il difensore dell’imputato per circa mezz’ora. Non contenti del tempo sino a quel momento utilizzato la parte civile ha formulato le proprie repliche ed il Pubblico ministero, a sua volta, le controrepliche.
In totale, quindi, oltre 45 minuti per discutere una causa di rilevanza modestissima con l’effetto di sottrarre tempo agli altri procedimenti fissati per la medesima udienza e magari di maggiore importanza.
Dopo questo episodio ho pensato che forse dovremmo imparare proprio dalla tecnologia ad essere più concisi e precisi senza nulla togliere naturalmente al ruolo decisivo e predominante della qualità delle parole che pronunciamo che ovviamente è caratteristica soltanto “umana”.
Se pensiamo a Twitter, ad esempio, ci renderemo conto come questo sistema “costringe” ogni suo utente a ragionare dovendo questi necessariamente esprimere il proprio concetto in maniera chiara ed efficace in meno di 140 caratteri se vuole che i suoi followers lo apprezzino realmente.
Ebbene, forse anche noi avvocati sia nello scrivere che nel parlare forse dovremmo più spesso immaginare di inviare un “tweet” perché soltanto così saremo sicuri di aver comunicato qualcosa di efficace con poche parole ma “buone”.
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