La Corte di Cassazione ha recentemente emesso la sentenza n. 18826 del 29.04.2013 (qui è leggibile il testo tratto dal link del sito di Guida al diritto - Il sole 24 ore) nella quale si è occupata di un tema di grande attualità e cioè della possibilità commissione del reato di sostituzione di persona (di cui all'art. 494 del Codice Penale) attraverso l'utilizzo di strumenti informatici ed in particolare tramite i sistemi di "chat".
Come è noto la detta norma, introdotta dal legislatore ben prima della nascita e dello sviluppo delle moderne tecnologie di comunicazione, stabilisce una pena (salvo che il fatto non costituisca altro reato contro la fede pubblica) fino ad un anno per "chiunque, al fine di procurare a sé o ad altri un vantaggio o di recare ad altri un danno, induce taluno in errore, sostituendo illegittimamente la propria all'altrui persona, o attribuendo a sé o ad altri un falso nome, o un falso stato, ovvero una qualità a cui la legge attribuisce effetti giuridici".
Ciò premesso è lecito chiedersi se un'espressione giuridica di tal genere sia perfettamente sovrapponibile alle moderne forme di comunicazione ed, in tal caso, attraverso quali ragionamenti giuridici sia possibile far rientrare i comportamenti perpetrati attraverso gli attuali mezzi di espressione (quali ad esempio gli sms, le chat on line, le video chiamate, la posta elettronica, ecc...) nella fattispecie penale individuata dalla norma.
Nel caso affrontato dalla Suprema Corte l'imputata aveva divulgato su una chat on line, a sfondo sessuale, il numero del telefono cellulare della sua ex datrice di lavoro, con la quale aveva in corso un'azione giudiziaria già promossa in sede civile per rivendicazioni di carattere economico.
La vittima, ignara dell'accaduto, aveva iniziato a ricevere telefonate e messaggi a sfondo erotico contenenti richieste di incontri, nonchè insulti di varia natura.
A seguito di tale comportamento l'imputata aveva, pertanto, ingenerato negli utenti della chat line che la falsa convinzione che la persona offesa di cui aveva reso disponibile il numero di telefono cellulare, fosse disponibile ad effettuare incontri e/o contatti di natura sessuale.
La Cassazione si è, dunque, trovata nella materiale difficoltà di valutare se la diffusione di un numero telefonico, abbinato ad un nome utente della chat "c.d. nickname" potesse integrare la condotta di cui all'art. 494 c.p. ed in particolare se ciò potesse essere sovrapponibile alla sostituzione di persona "classica" in cui un soggetto si sostituisce ad un altro nella sua reale identità e non soltanto al suo numero telefonico abbinato ad uno pseudonimo.
La soluzione affermativa adottata dalla sentenza non poteva che giungere unicamente attraverso un'interpretazione estensiva della norma, partendo dal principio che, nel reato in esame, non è soltanto tutelata la pubblica fede, ma anche il soggetto privato pregiudicato dall'altrui comportamento.
Nel caso di specie, infatti, a differenza di precedenti casi in cui l'imputato aveva creato falsi account o indirizzi di posta elettronica riconducibili alla persona offesa, il comportamento è consistito nell'aver creato uno pseudonimo (c.d nickname) utilizzato in una chat e, avere attraverso essa, diffuso un numero telefonico di cellulare ad esso riconducibile.
Secondo la sentenza in esame "il reato di sostituzione di persona ricorre non solo quando si sostituisce illegittimamente la propria all'altrui persona, ma anche quando si attribuisce ad altri un falso nome o un falso stato ovvero una qualità a cui la legge attribuisce effetti giuridici, dovendosi intendere per 'nome' non solo il nome di battesimo ma anche tutti i contrassegni di identità".
Secondo la sentenza in esame "il reato di sostituzione di persona ricorre non solo quando si sostituisce illegittimamente la propria all'altrui persona, ma anche quando si attribuisce ad altri un falso nome o un falso stato ovvero una qualità a cui la legge attribuisce effetti giuridici, dovendosi intendere per 'nome' non solo il nome di battesimo ma anche tutti i contrassegni di identità".
Prosegue la sentenza affermando che: "in tali contrassegni vanno ricompresi quelli, come i cosiddetti “nicknames” (soprannomi), utilizzati nelle comunicazioni via internet, che attribuiscono una identità sicuramente virtuale, in quanto destinata a valere nello spazio telematico del “web”, la quale, tuttavia, non per questo è priva di una dimensione concreta, non essendo revocabile in dubbio che proprio attraverso di essi possono avvenire comunicazioni in rete idonee a produrre effetti reali nella sfera giuridica altrui, cioè di coloro ai quali il “nickname” è attribuito, come accaduto nel caso di specie.
Ad avviso della Cassazione, dunque, il “nickname” della persona offesa abbinato al suo numero di cellulare non poteva lasciare alcun dubbio sulla sua natura di contrassegno identificativo di una determinato individuo disposto ad accettare incontri e comunicazioni di tipo sessuale con gli utenti della chat e, pertanto, ciò non poteva che integrare il delitto di cui all'art. 494 c.p.
Certamente una soluzione di tal genere si caratterizza per originalità e va, comunque, apprezzata la sensibilità della Suprema Corte per tematiche di estrema attualità come le nuove forme di comunicazione.
Sotto il profilo del ragionamento giuridico, per alcuni versi, appare comunque una sorta di "forzatura" che denota l'estremo sforzo interpretativo che la Corte ha dovuto adottare in presenza di norme caratterizzate da un perimetro applicativo alquanto circoscritto poichè concepite in periodi storici in cui le attuali modalità di comunicazione non erano neppure ipotizzabili.
Ne consegue, pertanto, che visto il progressivo e inarrestabile diffondersi di forme di comunicazione sempre più telematiche sarà opportuno pensare ad un aggiornamento normativo grazie al quale sia possibile, senza doversi avventurare in difficili percorsi interpretativi, sanzionare effettivamente comportamenti deprecabili come quello in esame, ma dai confini giuridici ancora non troppo chiari in assenza di specifiche norme a riguardo.
Ad avviso della Cassazione, dunque, il “nickname” della persona offesa abbinato al suo numero di cellulare non poteva lasciare alcun dubbio sulla sua natura di contrassegno identificativo di una determinato individuo disposto ad accettare incontri e comunicazioni di tipo sessuale con gli utenti della chat e, pertanto, ciò non poteva che integrare il delitto di cui all'art. 494 c.p.
Certamente una soluzione di tal genere si caratterizza per originalità e va, comunque, apprezzata la sensibilità della Suprema Corte per tematiche di estrema attualità come le nuove forme di comunicazione.
Sotto il profilo del ragionamento giuridico, per alcuni versi, appare comunque una sorta di "forzatura" che denota l'estremo sforzo interpretativo che la Corte ha dovuto adottare in presenza di norme caratterizzate da un perimetro applicativo alquanto circoscritto poichè concepite in periodi storici in cui le attuali modalità di comunicazione non erano neppure ipotizzabili.
Ne consegue, pertanto, che visto il progressivo e inarrestabile diffondersi di forme di comunicazione sempre più telematiche sarà opportuno pensare ad un aggiornamento normativo grazie al quale sia possibile, senza doversi avventurare in difficili percorsi interpretativi, sanzionare effettivamente comportamenti deprecabili come quello in esame, ma dai confini giuridici ancora non troppo chiari in assenza di specifiche norme a riguardo.
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